Giorno 25 - Kazakhstan
- 4 Luglio
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- Creato Giovedì, 04 Luglio 2013 08:45
FORSE L'ARIA INTORNO
Testo e Foto di Flavio Allegretti
Apriamo gli occhi e sono le nove. D'istinto scattiamo sul letto, un brivido ci attraversa il corpo: è tardissimo, siamo in ritardo, gli altri sono partiti e ci hanno lasciati qui! Possibile?
No, non è possibile. Siamo solo sotto l'effetto di quella specie di droga che ti appanna le capacità cognitive, quando ci si sveglia di colpo e non è ben chiaro dove ci si trovi e cosa stia accadendo.
Oggi la giornata per noi, Enrico, Giorgio e Mirco, è di pausa pura. Significa, nelle parole di Nicola e Valerio: fate ciò che volete, dove e come desiderate.
Loro – stoici e da veri leaders dell'impresa Meneghina Express – si occuperanno di un po' di burocrazia insieme a Mustapha e di un'altra questione cruciale: adesso che i caricatori sono arrivati e i generatori funzionano, c'è da progettare ed eseguire una nuova configurazione per il pick-up dedicato all'energia. Quando, alle dieci, ci troviamo nell'atrio dell'albergo, rimaniamo d'accordo per ritrovarci attorno alle sei. Dunque, una giornata piena da potere gestire in autonomia.
Consapevoli dell'importanza di un po' di tempo libero e forti di un riposo generoso, scegliamo di separarci dal gruppo: abbiamo già trascorsi trentadue giorni consecutivi insieme – considerando anche quelli di preparazione, a Shanghai – e ci attendono altre tre settimane. Un po' di autonomia, non potrà che farci bene.
Sulla scorta di questi pensieri, auguriamo una buona giornata ai piloti e saltiamo sul primo autobus che vediamo, senza chiederci veramente dove ci porterà. Abbiamo vista velocemente una cartina: non è difficile “capire” Astana. Certo è una grande città, ma di fatto è divisa in parte storica e parte moderna. Un fiume l'attraversa tagliandola a metà.
Nello zaino abbiamo la macchina fotografica e un taccuino: per vocazione e passione, non dimentichiamo che sarà bello raccontare questa giornata, seppure atipica e vissuta in autonomia. Dunque con spirito giornalistico e mente libera, saliamo sul “21”. Tanto, qui, l'inglese non lo parla (quasi) nessuno: non abbiamo capito se c'è da comprare un biglietto; non è chiaro, nel caso, quanto costi; e non ci è dato sapere dove capiteremo e chi incontreremo. Eppure, forti dei moltissimi Paesi visitati per lavoro e diletto, oltre alle numeroso camminate in compagnia degli amici Psicoatleti, abbiamo imparato che il caso non esiste: si tratta, piuttosto, di segni del destino che si manifestano sotto forma di coincidenze. E ti aiutano, guidano, aprono gli occhi sul Mondo. Che tu lo voglia o no.
L'unica vera precauzione che prendiamo, è dotarci di un biglietto da visita dell'albergo: scritto in cirillico e nella variante kazaka; ma di certo se dovessimo perderci, basterà mostrare a qualcuno l'indirizzo di dove soggiorniamo e in un modo o nell'altro torneremo alla tana.
Il “21” parte veloce ed è subito chiarissimo un fatto: magari, i passeggeri, non possono immaginare che siamo italiani, ma ognuno di loro ha la certezza che non siamo cittadini kazaki. Ma come possono saperlo? Di fronte a noi ci sono fisionomie così diverse, che se non sapessimo di essere in Kazaksthan e la nostra guida non ci avesse spiegato un minimo quanto articolate siano le etnie di questo Paese, potremmo essere sulla Torre di Babele. I visi sono dotati di un soma orientale, tipo cinese-mongolo. Altre persone hanno tratti tipicamente russi. Altre ancora, sembrano slave. Moltissimi li diresti turchi. Un numero cospicuo ha caratteristiche somatiche tipicamente arabe, tipo egiziane, o degli Emirati. Il Kazako, quanto meno nella sua estetica, chi è? E, soprattutto, noi, per loro, chi siamo?
Siamo persone di cui potersi fidare, pur non conoscendole, a quanto pare. Perchè, quando tre minuti dopo essere saliti a bordo del bus, una signorina viene a chiederci di acquistare il biglietto (qui funziona così, abbiamo imparato: sali, e c'è sempre qualcuno che gira per il pullman e raccoglie soldi e biglietti. Zero stress, zero sospetti) non riusciamo a spiegarle in inglese, spagnolo, italiano o con quelle poche parole di russo imparate in questi giorni, dove vorremmo arrivare. Allora si fa vicino un ragazzo, che a occhio e croce avrà una ventina d'anni. Con la mano destra regge per il manubrio, sollevata, una bicicletta tipo BMX e, supportato da un inglese basico ma fondato, si offre di interpretare le nostre parole alla signorina.
Paghiamo il nostro biglietto e il ragazzo ci saluta e torna nello spazio che occupava sul bus, poco più avanti. Notiamo che non è solo: con lui ci sono due amici, più o meno coetanei, anche loto dotati di BMX, scarpe da skate, zaini freeride e visi simpatici. Si girano verso di noi, quasi senza rendersi notabili, anche se è chiaro che in un certo senso hanno dell'interesse nei nostri confronti, fino a che, lo stesso di prima, si riavvicina, ci tende una mano e calibrando bene le parole dice: “ Hi, my name is Roman, would you like to join us?”.
Perfetto, pensiamo: un giovane, anche se con dieci anni in meno sulle spalle rispetto a noi, ci offre compagnia e probabilmente assistenza, visto che presumiamo sia del luogo. Inoltre si chiama Roman, e le cose buone sono già due, anzi tre: Polansky come regista e scrittore non ci dispiace, e un nome che in qualche modo ci riporta in patria, non può essere un caso.
Gli altri due si chiamano Vlad e WhiteMilk (il vero nome non ci è mai stato comunicato). Hanno diciannove e ventuno anni, studiano all'università, ma purtroppo non parlano una che sia una parola d'inglese. A parte Roman, appunto, che si impegna a comunicare con noi e a fare in modo che la conversazione diventi collettiva: studia la lingua anglosassone da soli due anni, ma il suo livello è pari a quello di un italiano che l'abbia studiato per bene dalle elementari alla fine delle superiori.
I ragazzi ci chiedono di seguirli a casa, che devono lasciare le bici. Poi, se vorremo, potremo andare insieme in centro e, magari, se la compagnia risulterà piacevole per tutti, mangiare un boccone seduti allo stesso tavolo.
Quindi senza farci troppe domande, scendiamo presso una fermata sconosciuta di una città sconosciuta e arriviamo di fronte all'ingresso di un palazzo anonimo, piuttosto fattiscente. Saliamo le scale con i ragazzi e solo quando guadagnamo l'ingresso – dopo aver tolte le scarpe, perchè qui funziona così – ci rendiamo conto che qualcosa non torna: l'appartemento, al terzo piano, è praticamente vuoto. Cioè, non dà affatto l'idea che qualcuno ci viva. Non stabilmente. Inoltre c'è una signora, in soggiorno, con in mano delle carte. Saluta i ragazzi come li vedesse per la prima volta e pretende del denaro, senza offrire nulla in cambio. Rimaniamo un po' interdetti, nonostante la situazione sia tranquilla e abbiamo già la certezza che questi ragazzi siano in gamba, educati, “a modo”, per come si sono mostrati fino a ora.
Poi, quando la signora lascia l'appartamento, e Vlad si precipita in bagno perchè gli stava scoppiando la vescica, osserviamo meglio la situazione e, con un po' di calma, parliamo con Roman che ci chiarisce tutto.
Lui, WhiteMilk e Vlad, non sono di Astana. Quella non è casa loro, ma l'hanno affittata per una notte e ci sono appena entrati per la prima volta di sempre, insieme a noi. Studiano, sì, ma a trecento km da qui. E le BMX? Sta tutto lì! Sono tre giovani “pro” della BMX, ci fanno capire, mostrando un paio di foto di trick spettacolari, direttamente sul cellulare di Roman. E sono ad Astana, perchè qui c'è un discreto skate-park in cui esercitarsi. Domani altri dieci amici li raggiungeranno e tutti insieme gireranno un cortometraggio su questo sport, che in Kazaksthan è praticamente neonato: il freestyle è arrivato cinque anni fa, non di più, garantiscono.
Pensiamo di essere stati fortunati, perchè anche a noi piacciono molto questi sport. E poi, ora, tutto è più che certezza: i ragazzi sono simpatici, disponibili, interessati alla storia di Meneghina Express, e alla storia personale di chi scrive, fatta di amore e pratica per quelli che qualcuno definisce sport “estremi”.
Un'ora dopo siamo di nuovo in strada: un altro autobus – questa volta preso come vivessimo qui da sei mesi; certo con amici che parlano la lingua locale è facile! - e nello spazio di dieci minuti saliamo sul ponte che divide la città vecchia dalla nuova.
Appaiono dal nulla palazzi che puntano il cielo, moschee, edifici maestosi ed eleganti che per le scritte ripetute nell'intestazione sulla facciata di ognuno di essi, intuiamo essere i ministeri. Strutture avveneristiche popolano il piano urbano, e sembra di vedere la pianta del gioco anni'80 “Hotel”: giardini e spazi perfettamente distingubili sono attraversati da strade a sola percorrenza pedestre, e le costruzioni si possono separare benissimo. In sostanza: i palazzi non sono affatto ammassati, nonostante siano molti e ingombranti. Respirano e lasciano respirare: una meraviglia!
I ragazzi – certo, sono di ragazzi di venti anni, futuro in divenire di un Kazaksthan nato quando sono nati loro – mi portano in un centro commerciale avveneristico, il più grande del Paese, dotato di tutte le firme che, normalmente, in Italia, ormai trovi in qualsiasi centro. Poco male: in ogni caso si tratta di un “business center” kazako e, fosse anche solo per come sono impostate le vetrine e per il piglio di commessi e commesse nei negozi molto diverso da quello europeo, vale la pena farci un giro.
Comprano magliette da skate e, addirittura, ce ne vorrebbero regalare una. Rifiutiamo, per non approfittare della già grande gentilezza. Ma, per non essere da meno, offriamo loro il pranzo nel fast-food che scelgono: è un grande marchio globale, ma non è quello probabilmente pensate. Quello, dove le cose “succedono solo lì”, per il momento da queste parti non è ancora ammesso. Mother Russia è vicina e, forse, ha deciso che questo paese per il momento si può accontentare del Re degli hamburger o dei polli fritti di Uno degli Stati Uniti.
Il tempo passa veloce piacevole: Roman, Vlad e WhiteMilk ci insegnano tutte le parolacce possibili in russo e poi, dopo un caffè, arriva il commiato. Ci scambiamo indirizzi mail e abbracci; loro rientrano a fare spese prima delle prestazioni sportive di domani, noi ci buttiamo nella pioggia visitare la città.
Sfioriamo palazzi, entriamo dappertutto, entrando pure nella mosche più grande del Paese e, con un pizzico di astuzia, anche noi inginocchiati scalzi al cospetto di un Dio che non conosciamo ma che – a prescindere da nomi e cognomi, origini e parole, vorremmo tanto ci fosse e ascoltasse i nostri pensieri rivolti a tutti quelli a cui vogliamo bene, e a tutti senza distinzione – rispettiamo nell'idea e nell'incertezza legata a chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti, riusciamo a rubare un paio di scatti.
Da lontano scorgiamo una palla che sovrasta la città: il primo pensiero è “base jumping”. Il secondo è: non abbiamo il materiale, non siamo base jumpers, qui ci arrestano.
E allora ci “accontentiamo” di pagare l'equivalente di due euro e mezzo, fare la fila, salire a bordo di un ascensore ultra veloce e ammirare dall'alto lo splendore variegato e nuovo di questa città.
L'appuntamento con gli altri è per le sei, e abbiamo un'ora giusta per capire, dal punto in cui siamo, dopo avere camminato sull'onda dell'entusiasmo senza badare alla geografia cittadina, quale bus prendere per raggiungere l'albergo.
Non è più il “21”, ma il “12”. E, ovviamente, oltre a essere lo stesso numero dell'andata scritto al contrario, ci accorgiamo che lo abbiamo preso dalla parte sbagliata della strada: viaggiamo verso ovest, mentre dovremmo tornare a est.
Poco male: dopo due fermate ce ne rendiamo conto; attraversiamo la strada, attendiamo cinque minuti (qui i bus si susseguono come i numeri della tombola: uno dopo l'altro e sei già alla partita dopo) e siamo nella direzione giusta.
Per le cinque e cinquantadue siamo a destinazione e – ironia della sorte – il pick-up con a bordo Nicola e Valerio arriva insieme a noi.
I lavori sono stati fatti in modo ineccepibile: i caricatori, adesso, sono otto; montati in linea a coppie di quattro, sulle pareti laterali interne del pick up, con accesso da finestre laterali. I generatori sono uno a fianco all'altro, fissati su un supporto saldato sul fondo del cassone, rialzato di trenta centimentri. Il sistema concepito da Valerio e Nicola, che ne sanno “una più del diavolo”, dovrebbe permetterci di ricaricare le batterie anche i movimento, come solo siamo stati capaci di fare con i pannelli solari, che, per chiari limiti legati al tempo atmosferico, non sono sempre stati d'aiuto.
Ora – per i piloti prima che per ognuno di noi – è tempo di svago e riposo. Ceneremo tardi, con calma, e punteremo tutto sulla serata che si propone come epica: dobbiamo festeggiare il successo della prima metà del nostro viaggio!
E, nel frattempo, preoccuparci con dedizione e raziocinio alla metà che ci attende.
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Siamo arrivati al secondo appuntamento con la pagella della sostenibilità, oggi parliamo della nostra esperienza in Mongolia.
11 Luglio 2013 | Leggi tutto...
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01 Luglio 2013 | Leggi tutto...
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01 Luglio 2013 | Leggi tutto...