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Giorno 18 - Russia flag - 27 Giugno

Da Olgyi a Kosh Agach: Passport, Please

Il primo aereo che vediamo da quando siamo in Mongolia – un bimotore usato anche in Europa per coprire brevi distanze -  decolla alle sette e trenta del mattino dal piccolo aeroporto di Olgyi e sembra non essere un caso: accompagna la nostra partenza, che dall'alto immaginiamo possa distinguersi in due pick-up sporchi di terra e un paio di moto agili e silenziose che discendono le colline dell'ultima città prima del confine con la Russia.

Guidiamo nel silenzio per una trentina di km, fino a quando Nicola e Valerio accostano. Ci pare strano, perchè le batterie delle moto dovrebbero avere ancora autonomia.

“Cazzo, il telefono”, dice Valerio. Sarebbe il secondo apparecchio portatile smarrito dalla partenza in Cina. È un uomo che vive veloce, si alza prestissimo la mattina ed è sempre alle prese con qualcosa da fare. E se non c'è da fare – nonostante nel nostro viaggio l'ozio non sia contemplato – se lo inventa. Dunque qualcosa può sfuggire. Ma questa volta non può e non possiamo permettere che il telefono rimanga in una Ger; un apparecchio portatile, qui, non è uno sfizio con il quale smanettare a tempo perso: serve come l'acqua, perchè se dovessimo allontanarci sarebbe l'unico strumento con il quale comunicare e riavvicinarci, ammesso ci sia copertura.

Ci dividiamo: Nicola farà strada verso nord, insieme al pick-up dove viaggiano Giorgio e Mirco. Noi, con Enrico, torneremo al Camp nel quale abbiamo pernottato e lo ribalteremo da cima a fondo fino a trovare quanto è stato dimenticato.

I cento km orari, il nostro pick-up non li aveva toccati mai in Mongolia, ma questa volta è necessario premere un po' di più il pedale giusto, anche perchè la strada lo permette. Inoltre, non possiamo varcare il confine dopo una certa ora. Prevediamo una trafila piuttosto laboriosa, tra superamento della barriera mongola, formalità doganali ed entrata nella Mother Russia.

“Cazzo, il telefono”, ripete Valerio, seduto di fianco a noi, dopo una decina di Km percorsi all'inverso. Questa volta, nonostante le parole siano le stesse di quindici minuti prima, l'esclamazione ha una sfumatura liberatoria. L'apparecchio si trovava nella tasca inferiore, all'interno della pattella superiore ad altezza media dei pantaloni della tuta da moto che il pilota indossa. Ci facciamo una risata e tiriamo un sospiro di sollievo, mentre il nostro amico ci confida che quando si sposta, soprattutto all'estero, viaggia con almeno tre schede SIM di riserva, perchè perdere telefoni per lui è quasi un vizio, a tal punto da aver preteso un'assicurazione ad-hoc che gli copra questo tipo di accidenti.

Tempo venti minuti e abbiamo riagganciato il convoglio. Tutti insieme ci spingiamo fino a Tsaganhuur, area di confine tra Mongolia e Russia. Sembra un valico montano – in effetti siamo ancora a 2250 metri di altezza – e siamo tra i pochissimi gruppi di auto (moto proprio non se ne vedono; elettriche sembrano non esistere e continuano a suscitare curiosità ovunque andiamo) che raggiungono l'ex Unione Sovietica per questa via.

Come era accaduto tra Cina e Mongolia, anche qui abbiamo da spiegare agli agenti di confine in che senso siamo italiani, partiti dalla Cina per tornare in Italia, a bordo di un convoglio che conta, oltre ai pick-up, due moto di concezione americana, però immatricolate in Spagna poiché non ancora considerate “moto vere e proprie” nella maggior parte dei Paesi europei. Un “carnet” fatto di decine di fogli, che contempla ogni oggetto che trasportiamo. E sei bei visi sporchi si sabbia e, oggi, in particolare, fatti a pois, perchè nella sosta che ha preceduta la dogana uno sciame di migliaia di mini-zanzare ci ha punti ovunque nello spazio di cinque minuti.

Alla fine ce la facciamo, e procediamo per otto chilometri all'interno di una “zona franca”, prima di incrociare la frontiera russa. “No tatatatatam, uhm?”, dice un agente di confine in divisa mimetica e basco verde, simulando una mitragliatrice. Del tipo:” Siete bravi ragazzi, no? Non è che avete armi o altre cose strane, giusto?”.

“No”, dice Nicola, in modo composto e convincente. “Welcome to Russia”, leva la sbarra con un sorriso il militare. E siamo in Russia.

Tecnicamente, invece, non ci siamo proprio per niente. Segue la dogana, con formalità pari a quelle sbrigate poco prima. Ma gli agenti, qui, sembrano più seri. Hanno un comportamento meno scanzonato, nonostante non si mostrino affatto refrattari a collaborare con noi nell'adempimento di ogni singolo compito legato al passaggio nel nuovo Paese: chi guida deve dichiarare un paio di cosette, firmare moduli, mostrare patenti e libretti di circolazione dei pick-up. Che sono scritti in cinese, interpretati in inglese e comunicati a russi che a loro volta fanno il processo inverso.

In totale ci mettiamo tre ore e venti minuti, ma adesso siamo in Russia per davvero. Si rivede l'asfalto – e i nostri fondoschiena, stabili sui sedili, non ci possono credere, dopo avere saltato su e giù per quasi due settimane – compaiono niente poco di meno che cartelli stradali! Limiti di velocità! Addirittura semafori!?

Incredibile: in meno di dieci km in linea d'aria, sembra di avere varcata una porta spazio temporale. Non abbiamo ancora visto nulla, in effetti. Sappiamo che la “Respublika Altay” - la regione in cui abbiamo fatto il nostro ingresso nell'ex U.R.S.S, anch'essa inserita tra catene montuose piene di mistero - praticamente non è considerata Russia. Nel senso che è così remota, da essere appena contemplata pure nelle mappe che abbiamo. In realtà ci affascina l'idea di avere messo piede per la prima volta nella nostra vita in questo Paese, entrandoci da una porticina segreta. E ci ricordiamo di un amico saggio che, una volta, ci disse che le nazioni non esistono. Esistono esperienze di persone in luoghi che qualcuno ha confinati in nazioni dando loro un nome; ma difficilmente persone diverse potranno dire di essere state in luoghi comuni, perchè ogni luogo è prima di ogni altra cosa un luogo fatto dalla e della percezione soggettiva dello stesso.

Tra dogane, passaporti timbrati e pensieri che viaggiano e distraggono, s'è fatta sera anche oggi. Guidiamo per altri quaranta chilometri, e pieghiamo in un paesino dove le vacche girano a zonzo, le donne fuori dai negozi guardano interessate chi arriva e un ostello vuoto ci attende, permettendoci di usare la cucina interna, occupare un paio di camere e appoggiare su un tavolo le nostre mappe.

La Russia, questo breve assaggio che ci attenede, di un migliaio di Km, prima di un confine inedito, per poi essere di nuovo lambita, ci aspetta domattina come una novità inebriante, che ha bisogno di occhi riposati per potere essere osservata con cura.

Testo e Foto di Flavio Allegretti

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