Giorno 17 - Mongolia - 26 Giugno
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- Creato Mercoledì, 26 Giugno 2013 06:45
Da Khovd City a Olgyi: Arrivederci, Mongolia
“Uliii! Uliiii!! Uliiiii!!!”.
“Ingredty volenram sisitiiii!”
“Uliiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!”
Parole, forse. Suoni, lamenti. Frasi ubriache, urlate dalle due alle sei del mattino. Porte sbattute, tentivi di sfondamento delle stesse, bussate nevrasteniche e calci tirati senza cura di chi, a meno di un metro, prova a riposare.
Siamo noi, quelli che provano a spegnere i pensieri per qualche ora. E sono loro – cittadini di Khovd, ubriachi persi, la fisionomia nuova, non esattamente mongola, ma mischiata con quella kazaka – che urlano frasi che non possiamo capire, provano a forzare una porta vicina alla nostra e possedere le ragazze che stanno dall'altra parte, non meno ubriache di chi tenta l'assalto.
Risultato: non abbiamo dormito. Per niente. Risultato nel risultato: siamo distrutti, alle sei e mezza precise del mattino, quando partiamo per Olgyi (oppure Olgii, dipende da chi traduce mappe e guide) e dobbiamo percorrere ducentoventi km, ultima vera tappa in Mongolia, poiché il 27 giugno sconfineremo in Russia.
Da un paio di giorni abbiamo visto cambiare fisionomie e attitudini. I visi tonteggianti - le labbra disegnate in un sorriso, gli occhi che si stringono vicino alle tempie e i profili regolari fatti di nasi armoniosi e gote piene – sono, adesso, tratti un po' più rigidi, squadrati. E duri, in un certo senso.
Più duri, anche, sono diventati gli sguardi. Meno amichevoli, attraversati da una curiosità che lascia intuire il sospetto.
Forse è una nostra percezione, ma il viaggio verso nord-ovest – in corrispondenza dei “grandi” centri abitati, non certo tra le alture dell'Altai – ci ha mostrate delle differenze culturali, religiose e comportamentali, che sanciscono la fine della Mongolia vissuta in itinere. Ribadiamo: si tratta solo di percezioni e nessuno meglio di chi viaggia sa che per conoscere è necessario vivere e per vivere è fondamentale dare e prendere tempo.
In ogni caso, partiamo piuttosto scarichi e quella che ci attende è una giornata da dieci ore di viaggio, un terzo del quale su uno dei tratti più impegnativi della Mongolia montana. Da 2000 metri risaliamo attraverso curve vertiginose fino a un picco di 2730. L'aria è di ghiaccio, nonostante una bella giornata di sole. In più di un'occasione siamo costretti a variare la rotta, allungandola, perchè la pioggia della notte scorsa ha distrutto ponti (ghiaia e terra messe insieme, che si dividono come un coltello fende il burro). In altre occasioni siamo costretti a guadare e c'è sempre la paura che i radiatori dei pick-up bevano più acqua del dovuto e rischino di soccombere, impregnati della stessa.
La fatica della guida, viene mitigata dalla bellezza delle montagne, alcune delle quali innevate, e si possono scorgere ghiacciai perenni, come il Potanin nell'area del Tavan Bogd. La cosa più spettacolare è proprio l'unicità del passaggio: ci stiamo muovendo in una vallata a 2500 metri di altezza media, che però sembra una piana, mentre a destra e sinistra si alternano vette rocciose, di colori diversi, pietre rosse, grigie e nere, e gruppi isolati di falchi volano insieme solo per il gusto di farlo, perchè sfruttano le termiche senza un obiettivo se quello non di volare e osservare da lassù le Ger isolate e centinaia di cavalli, pecore, capre e yak che stanno attorno, o trasumano verso località meno erte.
Le aquile di cui accennavamo ieri, si materializzano in un favoloso esemplare, che un paio di ragazzini ci mostrano con orgoglio, non lontani dalle sponde del lago Tobor. Ha occhi che incutono timore, ma allo stesso tempo ispirano un senso di forza, eleganza e bellezza imparagonabili con altri volatili. Ci tratteniamo dal prendere in prestito il guanto con il quale hanno addestrata questa aquila, solo per rispetto di chi ce la mostra. Ma il nostro desiderio più intimo si tradurrebbe nel poterla avvicinare, chiderle come fare a volare, essere per un solo giorno, un solo minuto, dotati di quelle ali e non dovere accusare la forza di gravità.
Un'altra forza, la volontà, ci spinge e costringe a guidare con attenzione fino a Olgii, che raggiungiamo attorno alle diciannove. Sappiamo che i prossimi cinque giorni attraverseremo una Russia difficile, dal punto di vista della geografia e del clima. Il buon senso ci imporrebbe una notte comoda, una camera convenzionale; ma oltre al “buono”, esiste e trionfa il “senso”. Senso e sensazione: del viaggio, dell'occasione unica e, forse, irripetibile di essere stati in Mongolia. Optiamo allora per l'ultima Ger, ubicata nella parte collinare più suggestiva di Olgii.
Siamo gli unici ospiti di questo Camp, dal quale riusciamo a scorgere l'intera cittadina, le montagne che la incorniciano, le valli che ci siamo lasciati alle spalle e l'incudine in cui ci infileremo domani per raggiungere la Russia.
Troviamo padelle e fornelli, possiamo cucinare in autonomia, ricaricare le apparecchiature, stupirci per l'ennesima volta della perfetta accoglienza che le tende a pianta circolare sanno riservare.
E, nella Ger adibita a sala da pranzo, ritroviamo la sintesi di questo Paese: pelli di volpi appese lungo la circonferenza interna della tenda, fotografie di greggi, cavalli, cammelli, vette, aquile. E visi sorridenti di bambini e adulti nei costumi tipici della Mongolia – che costumi non sono, ma semplicemente il loro abbigliamento usuale – che cavalcano e con una specie di lazzo indirizzano mandrie di capre e agnelli verso una piana smisurata.
L'abbiamo sognata e immaginata e, a modo nostro, vissuta. Deserti e praterie, altipiani e montagne, parole incomprensibili sussurrate da genti nomadi, però stabili in un rispetto che “da noi” non esiste più. E odori forti di bestie, di carne viva, di sporco in cui distigui meglio la limpidezza che c'è sotto. È stata una palestra dura e gratificante, senza la quale, forse, non saremmo pronti ad affrontare ciò che ci attende: altri 8000 km di viaggio da percorrere in un mese, tra montagne e steppe, prima del Vecchio Continente, che sapranno illuminare anime e cuori con luce nuova e, forse, offrire il tempo necessario per ricordare quanto abbiamo appena vissuto. Fissare nella mente un'emozione grande quanto la bellezza che l'ha generata, come una fotografia scattata senza rendertene conto.
Testo e Foto di Flavio Allegretti
Path traveled today