Giorno 13 e 14 - Mongolia
- 22 e 23 Giugno
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- Creato Domenica, 23 Giugno 2013 09:23
Da Bayankhongor a Hurengiyn (via Buutsaagan): O mangi 'sta minestra...
La doccia calda che pregustavamo, in realtà è una pioggia debole appena tiepida, che schizza irregolare dall'erogatore dell'impianto del bagno, nella camera dell'unico alloggio su tre esistenti in città, dotato di servizi interni e teorie di acqua calda.
Non importa: i letti ci sono e anche i materassi insieme ai cuscini, che nelle case private non sono poi così comuni, se non sotto forma di superfici rigide e, se imbottite, lo sono di pietre minuscole che si modellano sotto il peso del corpo e del capo che vi si adagia.
Perdiamo i sensi attorno alle undici, dopo avere cenato nei locali che stanno sotto le nostre camere: l'alloggio si chiama “Seoul” e inevitabilmente il cibo segue il nome che intesta la struttura. Mangiamo piatti ispirati alla Corea, prettamente a base di riso, pollo, patate, soya e uova.
La mattina seguente, giorno 13 dalla partenza dalla Cina, sembriamo tutti misteriosamente affetti dal morbo della Mongolia: abbiamo attraversato il deserto, meno di dodici ore prima stavamo per perderci tra le vallate che precedono gli altipiani dell'Altai, abbiamo già macinati quasi duemila chilometri in questo Paese, e siamo intimamente divisi tra la voglia di godercelo tutto, fino in fondo, e il bisogno di uscirne. Di uscire, ovvero, da questo sogno che è così grande da contaminare la realtà, tanto da distorcerla e presentarla nella sue pieghe più irrazionali: da quanto tempo siamo in Mongolia? Dove abbiamo dormito tre giorni fa? Quanti chilometri dobbiamo fare oggi? E, soprattutto, come saranno le strade? Giacchè siamo di nuovo in territorio pianeggiante – per quanto collocato a duemilacento metri sopra il livello del mare – incontreremo lunghe piste frastagliate, oppure dovremo di nuovo salire e scendere? Guadare torrenti ed evitare di sprofondare nel fango?
Best Shot by Mirco Lazzari
Mettiamo in chiaro un fatto che racchiude tutto ciò che vi abbiamo raccontato fino a ora: noi, la Mongolia, la stiamo attraversando come pochi lo hanno fatto. Non abbiamo la presunzione di essere avventurieri con il gusto dell'estremo per colmare la noia. Semplicemente, non ci siamo affidati a un'agenzia turistica; non abbiamo prestabilito un itinerario fisso; in base a quanto ci è accaduto ogni giorno, la nostra meta è diventata il luogo che quotidianamente siamo riusciti a raggiungere fino a che le forze, il buon senso o le esigenze ci hanno permesso di viaggiare.
Ce lo conferma Roolma, la nostra guida – più che una guida in senso stretto è una traduttrice, utile per le comunicazioni con i locali e per le informazioni generali sui territori che attraversiamo – che dopo anni di esperienza di accompagnamento e assistenza ammette di non avere mai fatto un viaggio del genere. “Non siete turisti, piuttosto viaggiatori. Mi stupisco di come abbiate il coraggio di attraversare così la Mongolia. Spesso nemmeno “noi” ci arrischiamo a percorrere certe strade”. Dice così, lei.
Non allude alla pericolosità in termini di “insidie”, nonostante il deserto non sia una passeggiata, ma al fatto che qui i territori sono immensi, le persone pochissime (2 milioni e mezzo, di cui due terzi nella capitale, che abitano il diciassettismo Paese al Mondo per estesione dei territori), non esistono cartelli, non esistono strade come possiamo concepirle noi – quelle asfaltate, almeno in queste regioni del sud-ovest, contano pochissimi chilometri – e sopra ogni altra cosa regnano la pastorizia, la vita nomade e l'ospitalità, quando è possibile.
Il caso vuole che dopo avere percorsi duecentoventi Km. da Bayankhongor, non si riesca a trovare ospitalità in alcun modo. Siamo in una bella valle a duemila metri giusti di altezza, non ci sono paesi o comunità pastorizie attorno e le rare Ger che vediamo sono giustamente occupate dai pastori e dalle loro famiglie. All'altezza di Buutsaagan proviamo a giocarci l'ultima carta: ci sono una ventina di abitazioni semidiroccate, una delle quali offrirebbe ufficialmente ospitalità se non fosse già occupata per ogni centimentro da operai che lavorano in un cantiere del “Partito”.
Il sole sta tramontando, le carte topografiche dicono che non c'è nessuna forma abitata entro i centocinquanta chilometri sucessivi. Rimane una carta sicura, da giocare però con astuzia e consapevolezza, vista l'ora e l'altezza in cui tireremo fuori il nostro jolly: possiamo accamparci con le nostre tende!
Quattro, di quelle che si aprono in pochi secondi, piazzate una a fianco all'altra, in una leggera pendenza. Dietro le tende, uno dei pick-up, a fermare il vento che soffia fisso da nord-ovest. L'altro distante trecento metri, generatore acceso a portarci la luce e ricaricare le batterie delle moto.
Siamo stanchi, ancora, e abbiamo fame. Avremmo scatolette e biscotti, pane raffermo e marmellata, ma il freddo si fa sentire e puntiamo su qualcosa che possa preparci ad affrontare la notte. Valerio aveva portato dall'Italia delle minestre in busta, quelle che versi in acqua calda e vengono pronte in pochi minuti. Qulacuno, a Shanghai, mentre preparavamo i bagagli, aveva sorriso. Quando erano state stolte quelle risa! Ora siamo tutti e sei attono al nostro tavolino da campeggio, le giaccche addosso, bottigliette d'acqua vuote tagliate a metà diventano simil-scodelle in cui versiamo le razioni di minestra, preparata con un fornelletto a gas. Il pane pucciato dentro e qualche biscotto secco ad accompagnare il tutto.
La notte arriva fresca e veloce, la luna piena le dà senso rendendola meno cupa. Vestiti il più possibile gonfiamo i materassini, apriamo i sacchi a pelo, ci infiliamo nelle tende, ognuna delle quali ospita due di noi.
Con altrettanta premura si presenta l'alba: alle sette suona la sveglia e cinquanta minuti dopo siamo pronti a ripartire.
Puntiamo, nel nostro quattordicesimo giorno di viaggio, la cittadina di Altay, una delle ultime tre “grandi cittadine”, dove potere trovare provviste e quanto altro ci può servire prima di percorrere, nei prossimi quattro giorni, i circa settecento km che ci separano dal confine con la Russia. Ci arriviamo relativamente presto, attorno alle tredici, ma alcuni di noi non sono in perfetta forma. Giorgio, su tutti, che accusa un po' di fastidio allo stomaco, come è accaduto un po' a tutti in questi giorni, a causa dei pasti irregolari con cibo locale, spesso non esattamente digeribile dai nostri apparati solo parzialmente preparati. Niente di serio. Gli prepariamo la nostra personale ricetta e lo vediamo gradualmente riprendersi. Ciò che non accenna a migliorare, invece, è il tempo. Nonostante il viaggio di stamattina sia stato abbastanza fluido – fatta eccezione per un paio di passaggi nel fango che ci hanno costretti a concentrarci per bene – la pioggia non ci ha mai lasciati e, adesso che abbiamo guadagnato il centro povero e disordinato di Altay, è diventata una specie di nubifragio. Le strade sono come piccoli torrenti in piena, portano rifiuti che assomigliano a canotti che discendono le rapide in una sessione di rafting. Come fiori spuntano buche nelle strade già malmesse e quando troviamo riparo in una specie di ristorante locale, qualcuno si palesa portando paranoie capaci di immobilizzarci per tre ore. “Se pensate di continuare verso nord-ovest” – dice uno Sherpa locale che abbiamo incontrato e al quale abbiamo chiesto di farci strada verso la regione dei Laghi Har - “ sappiate che la pioggia ha formato pozze profonde oltre un metro”.
“C'è la possibilità che, viste le pendenze che vi attendono, ci siano cedimenti della parte rocciosa di alcune montagne”, lo asseconda un poliziotto che si unisce alla discussione, senza essere invitato a partecipare. “Prevedono pioggia per i prossimi tre giorni”, ci smonta Roolma, che dice di avere viste le previsioni in tv.
Ma quando? È sempre stata con noi! E questi – che certo, in quanto locali, hanno opinioni rispettabili – non stanno forse esagerando? Fosse stato per una guida conosciuta sul confine tra Cina e Mongolia, prima di avventurarci per il deserto, avremmo dovuto raccomandarci ai numi, perchè a suo avviso non ce l'avremmo mai fatta.
Ci viene il dubbio che i locali abbiano una percezione del pericolo estremamente più acuta della nostra, oppure che siano molto saggi e noi non abbastanza prudenti.
Ci arrovelliamo tra discussioni, confronti, timori, moti di orgoglio e senso di autoconservazione, finchè arriviamo a una soluzione comune, ponderata e perfetta via di mezzo: se decidiamo di credere che pioverà per giorni, dovremo rimanere qui fino al termine dell'evento atmosferico. Se scegliamo di sbirciare nel futuro, magari accompagnati da uno Sherpa che, come noi, ama tanto farsi domande quanto cercare risposte, potremmo provare a partire subito. Percorrere qualche chilometro. Capire subito se le vie sono intasate, inguadabili, proibitive.
Partiamo così alla volta di “dove arriviamo, arriviamo” e, attorno alle diciotto, abbiamo una sorpresa: dopo i primi sessanta chilometri, non c'è segno di alluvione. Non qui. Le piste sono ampie e abbastanza regolari. Gli sfondi, ancora, meravigliosi. E noi felici di avere fatta la scelta giusta. Alla fine maciniamo centosettanta km, portandoci di fatto molto più vicini alla zona dei laghi, dove domani potremo accamparci con calma e riposare, a patto che non piova.
Troviamo ospitalità lungo la strada: la località si chiama Hurengyin, è non è altro che una fattoria composta da un paio di Ger e dalla casetta in legno dove vive la famiglia di pastori. Marito, moglie e tre bambini. La “casa” è composta da due stanze, comunicanti. In una dormiremo noi, sopra un grande sofà predisposto per gli ospiti. Nell'altra c'è la famiglia che, mentre scriviamo ciò che leggete, a mezzanotte e trenta, sta tagliando pezzi di carne di agnello, mentre i bimbi aiutano e ci spiano da un angolo. Non sembrano stupiti. Qui l'ospitalità, per quanto regolata da un'offerta in denaro, è quanto di più normale si possa offrire a chi è di passaggio. Noi, stipati in questa stanza, ancora una volta lontani da tutto, pensiamo che non ci sia grande albergo che possa reggere il paragone con questo riparo, né gentilezza che possa eguagliare la spontaneità di queste persone.
Testo e Foto di Flavio Allegretti
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11 Luglio 2013 | Leggi tutto...
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01 Luglio 2013 | Leggi tutto...
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01 Luglio 2013 | Leggi tutto...