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Giorno 10 e 11 - Mongolia flag - 19 e 20 Giugno

Da Tsogttsetsiy a Bogd: Non si fanno sconti

Per le strade di Tsogttsetsiy, nelle primissime ore del decimo giorno di viaggio, notiamo qualcosa che non avremmo potuto constatare la sera prima, a causa del buio e della stanchezza.

Ci sono più banche che case, quasi. E più volti occidentali di quanti ne abbiamo visti in circa venti giorni di permanenza in Asia. Di certo, gli unici dall'ingresso in Mongolia.

Il supermarket della cittadina – forse tremila abitanti, due strade principali che si intersecano su uno sfondo di sabbia – si chiama “Nasa Market”; all'angolo della struttura in cui abbiamo pernottato, c'è una “Super Taste Burger House”; i bambini girano con bicilette da Freeride bi-ammortizzate e un paio di ragazze che incrociamo, vestono magliette con Michael Jackson e Brad Pitt.

Ci informiamo attraverso Roolma e capiamo tutto: in questa area sorgono parecchie miniere e vengono estratti “metallucci” come Oro e Rame, e la quantità presente deve essere notevole se da qualche anno professionisti americani vengono inviati in una località tanto amena. Inoltre, da un decennio, nelle scuole c'è un'attenzione particolare per l'insegnamento della lingua inglese, nonostante la popolazione mongola conti soli due milioni e mezzo di abitanti che, se possono permettersi di viaggiare, mediamente non si spingono più in là dei Paesi che la stringono, Russia e Cina. La ragione è appunto legata alla crescita esponenziale dell'industria mineraria, e chi ha interesse a investire qui, avrà bisogno di confrontarsi con locali capaci di comunicare nella lingua più diffusa la mondo.

Ci lasciamo alle spalle le banche e le miniere, e in meno di due chilometri siamo di nuovo nel deserto. Andrà così per tutta la giornata e pure l'indomani non sarà diverso: dobbiamo macinare strada, abbiamo una tabella di marcia e non si fanno sconti. Se c'è da partire alle cinque la mattina, dopo avere lavorato sui pick-up fino a mezzanotte della sera prima (sì, ne hanno “sempre una”, perchè il deserto è irrigolare, a tratti saltelli su mini cunette di sabbia pietrificata per dieci chilometri di fila e qualsiasi vite si allenta, nonostante autobloccanti e accorgimenti di ogni sorta) si deve partire e basta.

Non stiamo facendo una corsa, non dobbiamo dimostrare niente a nessuno, ciononostante ogni chilometro fatto ha un suo perchè, fondato su permessi di transito che hanno scadenze, ingressi in aree particolari il cui accesso è vincolato alla presenza di una guida che dobbiamo per forza incontrare “là”, e tanti altri impegni quotidiani e futuri che non possiamo sottovalutare. Vivere alla giornata, con lungimiranza. Un paradosso, ma è così. È bella l'avventura, ma ha anche tanti risvolti faticosi, densi di impegno richiesto a ogni singolo componente del gruppo, che deve necessariamente dimenticarsi di avere un “ruolo ufficiale”, a favore di tutti i ruoli possibili oltre al proprio.

È così che dopo un'intera giornata di guida nel deserto – che cambia, diventando quasi prateria, per poi riassomigliare all'immagine più diffusa di se stesso – arriviamo in prossimità della Flaming Valley, tradotta così per i turisti (sì, in questa esatta zona qualche turista ci passa, arrivando con l'unico volo settimanale che atterra da UlaanBaatar a Dalanzadag). Si tratta di una piccola valle, simile a un canyon in miniatura, di terra e pietra che abbraccia tutta la gamma del colore rosso. Una valle fiammante, le cui variazioni cromatiche diventano strepitose agli occhi se il sole sorge o tramonta.

A un pugno di chilometri, c'è un Tourist Camp: dieci Ger ben ordinate e pulite, ognuna delle quali dotata di pannello solare e accomulatore, un corpo centrale per i pasti e bagni in comune, perfettamente mantenuti. Soprattutto, il Camp è situato in cima alla piana di una collina e attorno, per tutti i trecentosessanta gradi disponibili, l'immensità del deserto, delle dune sullo sfondo, delle prime montagne rocciose, verso nord e ovest. Siamo a 1565 metri di altezza.

La notte trascorre veloce, accompagnata dal forte vento e dalla stanchezza: alloggiamo nella Ger con Nicola ed Enrico, mentre l'altra tenda disponibile ospita Mirco, Giorgio e Valerio.

Non riusciamo nemmeno a fare la doccia: qualcuno di noi dimentica sulla testa la torcia da minatore, che ha usato poco prima per finire, nel buio, di caricare i pick-up, mettere in ordine il materiale, provare col compressore a levare un po' di sabbia dalla cabina: ne siamo pieni, ovunque, e abbiamo almeno altri settecento chilometri da fare in queste condizioni, che equivalgono ad almeno quattro giorni di viaggio.

Ne abbiamo fatti, oggi, al nostro undicesimo giorno dalla partenza da Shanghai, ducentoventi. Tirati, senza fermarci se non per cambiare le batterie delle moto, mangiando un frutto a bordo dei mezzi o un paio di biscotti volanti, quando i pick-up ci imponevano una sosta per verificare che una determinata cunetta presa non avesse spostata la piastra in acciaio che protegge la coppa dell'olio.

Così, diretti, concentrati, fino a Bogd: paesello diroccato, privo di alloggi, di Ger destinabili ai nomadi. Nessuna connessione (immaginiamo leggerete questo diario con almeno un paio di giorni di ritardo), negozi neanche a parlarne e, ci informano, non un luogo esattamente raccomadabile per piantare le tende, nemmeno ai margini. Tanto vale tornare nel deserto. Anche perchè basta uscire di due chilometri e ne sei nuovamente inghiottito. Ma abbiamo bisogno di luce e di meno sabbia possibile attorno, stasera. Valerio ha bucato: l'unico chiodo di tutta la Mongolia s'è infilato dritto nella gomma posteriore. Niente di preoccupante, ma c'è da smontare e rimontare una gomma. Saldare le aprture laterali dei veicoli, che sono saltate con le vibrazioni continue e violente.

Rimediamo una stanza piccola, maleodorante e non esattamente comoda. Ma non importa: anche in questo caso, dei locali hanno ceduta una delle loro tre stanze di casa per fare spazio a noi. Hanno cucinato riso e verdure. Sono stati gentili e disponibili. Dormiremo qui, in sei, disposti male e scomodi, ma così stanchi da riuscisire a prendere sonno pure per terra. Il deserto ci aspetta domattina presto, e ci rendiamo conto che tutto ciò che sta diventando “regolarità”, in questi giorni di Mongolia nel Gobi, non riesce ad assuefarci: si tratta di un effetto prolungato, a rilascio graduale.

Sappiamo di essere stanchi, ma una strana carica fatta della semplice possibilità di essere qui, per davvero, e avere come scopo la “tappa di domani”, qualunque e ovunque sia, basta per farci chiudere gli occhi sereni.

Testo di Flavio Allegretti

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