Meneghina Express’ numbers:

12379 Kilometers in 44 days

350 hours riding

297 batteries recharged

12 countries

4500Kg Co2 reduced vs. gas

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Giorno 5 - Cina flag - 14 Giugno

Da Zhangbei a Sonid Yougi: La tempesta e il silenzio

Ci tocca svegliarci prima del solito. Oggi potrebbe essere l'ultimo giorno utile, in Cina, per fare provviste, collaudare in via definitiva la nuova configurazione dei pick-up – prima speculare, ora funzionale, ovvero uno dedicato alle batterie e alla generazione di energia, l'altro adibito al trasporto puro di attrezzi e bagagli – e beneficiare dell'aiuto di Carlo, che capisce il cinese, oltre a farsi capire benissimo.


phoca thumb l Great Wall !
The best shot of the day by Mirco Lazzari

Dunque ci dividiamo in due squadre, già operative alle 7.30: Valerio e Giorgio, hanno il compito di saldare l'ultima parte ancora “libera”, ma già funzionate, nel pick-up “dell'energia”, mentre Carlo, Enrico, Mirco e chi scrive, vanno alla ricerca di provviste, per poi tornare dagli altri e ultimare tutti insieme i lavori. Nicola rimane alla base, il luogo dove abbiamo trascorso la notte, per sbrigare una serie di formalità legate al nostro prossimo ingresso in Mongolia, studiare dei documenti inerenti alla programmazione delle batterie, che talvolta presentano malfunzionamenti.

Se costituivamo un'attrazione da Shanghai in poi, in questa cittadina siamo praticamente delle star di Hollywood a nostra insaputa. Mentre giriamo alla ricerca di quanto ci occore, il pick-up parcheggiato nell'area del mercarto, ci circondano una trentina di persone. Ci osservano, sorridono, ci mostrano i loro bimbi – che qui, per comodità, girano direttamente con una doppia apertura all'altezza dell'inguine e del sedere, in modo che possano fare cacca e pipì senza troppa fatica – e dal capannello di persone, una si fa avanti.  Avrà a occhio e croce venticinque anni, è una ragazza e parla incredibilmente inglese. Ci spiega che siamo gli unici occidentali che si siano mai visti da queste parti e che, al massimo, ci sono, come stranieri, dei filippini che vivono in un città più a sud-ovest, probabilmente Zhangjiakou.

Lei parla inglese perchè è un'insegnate e capiamo, dal suo punto di vista, l'importanza di averci incontrati, perchè ci offre il numero di telefono e il suo aiuto, se avessimo bisogno di qualcosa o non riuscissimo a spiegarci ai locali.

In effetti sono tutti gentili qui: anche alla stazione di servizio dove facciamo rifornimento, si fanno in quattro per procurarci una canna dell'acqua abbastanza lunga da raggiungere il tetto e riempire la cisterna: ci servirà, nei prossimi giorni, per lavarci, quando saremo nelle piane della Mongolia, attraverseremo il deserto, e non potremo fare altro che accamparci grazie alle nostre tende o in quelle dei nomadi che incontreremo sul nostro cammino.

Contro ogni aspettativa, e ogni previsione, non tardano ad arrivare né l'acqua, né le piane.

Alla volta di Huade, sessanta km dopo la partenza, il panorama cambia radicalmente, una zona quasi desertica che diventa un'immensa prateria. La prateria scorre veloce, si estende su un altopiano a 1500 metri di altezza, l'aria è frizzante, pulita, e in un attimo si alza il vento. Poi, la tempesta. Tuoni e fulmini, la temperatura scende di almeno sei gradi in un battibaleno e la pioggia da scroscio tollerabile, diventa un'onda d'acqua che ci costringe a fare una sosta, in corrispondenza dell'unico casello di accesso a una un'ulteriore strada. E' la porta di ingresso per l'Inner Mongolia, ovvero la Mongolia cinese. Nicola e Valerio sono fradici, ma non demordono. Attendono solo che la tempesta dia tregua perchè più in là, nell'orizzonte in cui si perdono gli occhi e che non conosce costruzioni, si intravede un paesaggio difficilmente descrivibile.

Non è un documentario, non sono informazioni che si trovano su una guida turistica: stiamo lasciando il mondo così come, da occidentali, lo conosciamo. Non importa se siamo stati in Paesi come la Malesia, l'Australia, la Nuova Zelanda, oppure la parte sud del continente americano. C'è sempre, anche in zona a bassissima densità di popolazione, un luogo che ospita backpackers, un ostello, un segno che in qualche modo ricordi casa. Perchè, comunque, anche nei luoghi meno popolati, i turisti ci passano.

Non qui. Qui, adesso che possiamo riprendere la marcia, ci sono solo pastori, pecore, capre e pale eoliche a migliaia. Difficile a credersi, ma l'unica testimonianza di “modernità” è rappresentata da un numero sproporzionato di eliche fatte per commutare la forza del vento in forza lavoro. Energia.

Ogni dieci chilometri ci sono delle fattorie, che sono perlopiù composte da due o tre tende mongole – a pianta circolare, con in mezzo un caminetto – e una costruzione in muratura a pochi metri, adibita a stalla per gli animali.

I pastori sono chini, seduti a terra, fumano oppure guardano lontano. Non ci sono cani con loro, né compagni di lavoro. C'è solo il silenzio surreale, la calma. Per un attimo rimaniamo storditi: abbiamo pensato tante volte a situazioni del genere, le abbiamo viste nei documentari, ne abbiamo letto, e con altrettanta frequenza – come capita a tutti, almeno una volta nella vita – abbiamo pensato “mollerei tutto e andrei a vivere dove non c'è niente”. Ma questa condizione, ciò che vediamo e che non vediamo, ci fa capire più di sempre come il mondo non finisca nelle certezze che abbiamo. Esiste un mondo che “non è mai arrivato”, mentre per molti versi, in Italia, in Europa, ci sentiamo al limite, percepiamo di avere tirato al massimo, ed essere sull'orlo del collasso semplicemente perchè quando c'è tutto ti sembra che in realtà non ci sia più niente da fare. Magari creare. Ma cosa?

Lungo il tragitto ci sono sterrati che i piloti non trascurano, ma aggrediscono con vigore. Si viaggia bene, veloci e può capitare che da un metro con l'altro ci sia una spirale di ferro che si incastra nella ruota posteriore della moto, come succede a Valerio. Impossibile evitarla, ma altrettanto difficile prenderla “bene”, senza fare danni a se stessi o alla moto. Lui ci riesce e, con la tranquillità del pescatore che getta l'amo e legge un libro in attesa dell'abbocco, ci segnala il problema. Recupera autonomamente un tronchesino dal pick-up, taglia ciò che c'è da tagliare, libera l'impiccio e riparte. Sono davvero forti i nostri piloti.

Poco prima del tramonto, siamo tentati di accamparci “abusivamente” in una delle tende mongole che troviamo lungo il percorso. Non che ci mancherà occasione di farlo nei prossimi giorni, ma l'aria definitivamente pulita e il sole che cala tra le dune, ci solletica non poco.

Alla fine prevale il buon senso: non è bello prendersi libertà senza chiedere permesso; inoltre mancano soli altri quaranta chilometri e saremo in una delle ultime cittadine dell'Inner Mongolia, prima di sconfinare, domani, all'altezza di Erenhot. Forse vale la pena cercare una sistemazione al chiuso, mettere tutto in ordine, e concedersi un po' di calma, dopo la tempesta.

Testo e Foto di Flavio Allegretti

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