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350 hours riding

297 batteries recharged

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Giorno 19 - Russia flag - 28 Giugno

Da Kosh Agach a N 51°13.925 E 085°38.512: Mi ricordo montagne verdi

La pioggia batte forte sui vetri del cucinotto dell'ostello dove abbiamo pernottato. Il desiderio di aprire il pacchetto con dentro la sorpresa russa – nuova, sconosciuta, imprevedibile - fa in modo che alle sei e trenta del mattino siamo già operativi.

Un paio di giorni prima, a Olgyi, avevamo fatto scorta di viveri e piccoli sfizi: sulla tavola in legno, sono già pronte fette di pane con un etto di cioccolata sopra, burro e marmellata, caffè solubile versato in acqua riscaldata a puntino, con il privilegio di un bollitore che ci risparmia l'utilizzo poco pratico di fornelletti e bacinelle.

Le auto sono in bolla, le moto hanno batterie caricate al massimo e montano gomme nuove, non tassellate, ma con un battistrada adatto alla guida su asfalto.

Sì, perchè in questa parte di Russia ci sono asfalto, cartelli, semafori, veicoli moderni e pure turisti – russi, che arrivano in questo angolo remoto del Paese, perchè a quanto abbiamo appreso sarebbe un paradiso montano.

Prima di partire ci fermiamo in una specie di cartolibreria: compriamo mappe locali, in cirillico, che almeno tracciano le strade che in teoria dovremmo percorrere, evinte attraverso le coordinate impartite al GPS grazie alle informazioni recuperate su internet quando, mesi fa, Nicola e Valerio stavano organizzando questo incredibile viaggio.

La pioggia, che scende alterna, ci segue per almeno un'ora da quando ci mettiamo in moto. Siamo a poco meno di duemila metri, l'aria è fredda. E tanto umida, per giunta. Non invidiamo i piloti, che sono vestiti a strati e hanno indossato sotto i guanti pesanti e impermeabili, altri guanti di lattice, per fare in modo che le dita non congelino. Attraversiamo una serie consecutiva di vallate, che salgono e scendono senza logica apparente, avvalendoci di un'unica strada perfettamente mantenuta. Ci passiamo in mezzo: montagne verdissime, piantumate con abeti e altri alberi dalla foglia aghiforme, che però non sono pini anche se la sosomiglianza è netta, si stagliano sulla destra, a monte. A valle, invece, abbiamo sempre fiumi che corrono paralleli, si intersecano; talvolta i letti sono ampi e pieni di acqua che quasi rompe gli argini, oppure si restringono in torrenti che, in corrispondenza delle pendenze più accentuate, cascano sulla roccia che sta sotto, levigandola o muovendola. Un gruppo di mucche ha scelto di bloccare la strada e ogni bovino rivolge lo sguardo a valle, come stesse assistendo a uno spettacolo. In effetti ci sono quattro loro amiche rimaste bloccate a margine del fiume: è probabile che si fossero spostate per abbeverarsi, la notte prima, e rimanere a riposare lì. Ma la pioggia ha alzato clamorosamente il livello dell'acqua, e adesso si ritrovano impedite nello spostamento, perchè la via attraverso la quale avevano raggiunto il pascolo è sommersa e alle loro spalle c'è un muro di terra alto almeno venti metri. Rimaniamo un po' a osservarle e, con immenso stupore, notiamo che una di loro ha trovata una via di fuga camminando come fosse una funambola a margine dell'unico punto in costa al fiume con acqua bassa. Probabilmente, vista l'andatura scomposta, sta poggiando gli zoccoli su dei sassi. Le altre osservano e, una per una, si fanno forza e seguono l'esempio della più coraggiosa. Quelle che ammirano le gesta dall'alto, la stessa strada dalla quale assistiamo anche noi all'impresa, liberano di colpo la via, come si fossero improvvisamente tranquillizzate. Mistero. O, forse, la solidarietà non ha genere, ma è un sentimento e basta.

Libere le mucche e libero il cielo: il sole si infiltra tra le nuvole, che sono grandi cumuli compatti e sovrapposti, e possiamo partire con l'agio di qualche grado in più. Ogni trenta km c'è un paesino. Le case hanno tetti a delta, che lasciano immaginare metri di neve a coprirli inverno : questi luoghi, seppure lontani ottomila km da casa, ci ricordano molto alcune delle Valli sopra Bergamo; oppure l'alto Piemonte; anche, i monti sopra Sondrio; la parte più alta dell'Appennino tosco-emiliano; le Prealpi lombarde. Insomma, è montagna vera e variegata, bella, dipinta con i colori tardo-primaverili, fiori viola, gialli e arancio pennellano i prati dai millesettecentometri in giù. Tutto è estremamente incontaminato, pulito, perfetto come fosse una cartolina. Ricordano, queste montagne, appunto, alcuni dei paesaggi delle aree montuose italiane, ma hanno il sapore dei racconti dei nonni, ovvero di qualcosa che da noi non c'è più. Mandrie di cavalli che corrono liberi e disordinati, nonostante siano marchiati a fuoco. Capre e pecore che riescono a coprire l'intera facciata di una montagna: saranno cinquecento, forse mille?

Pastori che poggiano le gambe anziane a fatica, aiutati da un bastone. Eppure anche qui esiste, come contrasto, un sapore moderno, fatto di traffico, di bancarelle che vendono cappelli e vestiti tipici del luogo, e strani unguenti semi-duri, che assomigliano a catrame. Nicola e Valerio, ne acquistano un panetto e ne spalmano una parte dove hanno dolore. Poco dopo sostengono di stare meglio: effetto placebo, o miracolo della natura?

La giornata non riserva niente di diverso da panorami mozzafiato, sempre nel trionfo del colore verde, che brilla e scintilla non appena il sole riesce ad avere la meglio sulle nuvole.

Poi, altri cento km dopo, con una cinquantina da percorre ancora per potere essere a buon punto rispetto alla tabella di marcia, ci rendiamo conto che il GPS e le mappe non segnano centri abitati per i duecento km a seguire. È chiaro che dovremo campeggiare. La cosa non ci spaventa, anzi! Gli spiazzi verdi a ridosso dei corsi d'acqua si sprecano. La legna, apparentemente buona per potere essere bruciata, pare non mancare e le nostre tende hanno voglia di essere picchettate. Approfittiamo di un piccolo negozio di alimentari per comprare salsicce, pomodori e pane, mentre il sole ci comunica i suoi intenti pacifici: ci accompagnerà fino al luogo scelto per il campeggio.

L'erba soffice e un torrente che si stringe in una distanza di quattro metri da sponda a sponda, ospitano il nostro campo base per stanotte. Finalmente possiamo raccogliere legna e sassi per disegnare i confini del nostro fuoco, disporre il tutto con metodo per preparare con calma la brace, come abbiamo imparato a fare da piccoli e non abbiamo più smesso di fare ogni volta che ne abbiamo avuta occasione.

Il rituale del fuoco, non solo ci permette di mangiare e di scaldarci, ma illumina il desiderio più intimo di ognuno di noi, nel rimettere in comune la voglia e la necessità di sentirci un gruppo compatto. Troppe volte, avendo ritmi importanti da rispettare, abbiamo trascorse giornate delicate e faticose, dove la stanchezza e i nervi che la seguivano, hanno lasciato spazio a cene stanche e poco loquaci, sottomesse al bisogno del riposo.

Ma adesso, siamo tutti intorno al fuoco e non c'è niente di più bello e naturale del suo calore per liberare aneddotti e indovinelli, sogni e storie vissute o che desidereremmo vivere. Si ride e scherza, mentre sui due fondi di stufa recuperati da un ferramenta e utilzzati come griglia, abbrustoliscono pezzi di pane e carne, pomodori e wurstel. Addirittura riusciamo a riempire una pentola di acqua, la portiamo in ebollizione grazie alla brace preparata in quantità generosa e ci mettiamo del riso. Reduce dalla Cina in un sacco da 5 kg, lo accompagnamo con salsa di soja e un pochino di pomodoro piccante. Stappiamo un paio di bottiglie di birra e siamo felici così.

Arriva veloce la notte e il miracolo delle stelle ancora una volta ci porta forze che non pensavamo di avere: mentre i nostri compagni dispongono i sacchi a pelo nelle tende e gonfiano i materassini, accendiamo il computer, buttiamo ancora un paio di ciocchi sul fuoco ormai debole e la luce riesce a distinguere ogni quadratino sulla tastiera, permettendoci di raccontarvi, per lettere digitate che diventano parole, ciò che state leggendo. Adesso.

Testo e Foto di Flavio Allegretti

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