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350 hours riding

297 batteries recharged

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4500Kg Co2 reduced vs. gas

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Giorno 12 - Mongolia flag - 21 Giugno

Da Bogd a Bayankhongor: Allacciare le cinture

La notte a Bogd non è stata delle migliori: passino gli odori sgradevoli, le assi di legno sulla quali abbiamo poggiate schiene già provate, zanzare e insetti, e pochi centimetri per muoverci. Ma i cani che ringhiano aldilà della porta che separava la nostra stanza dall'esterno, che si azzuffano tra loro e abbaiano tutta notte, quelli no! Non se riesci ad addormentarti a mezzanotte e cinque ore dopo devi essere in piedi.

Epica, la tappa di oggi è stata una maratona corsa contro il tempo: in senso cronologico – dodici ore di viaggio – e atmosferico – vento forte al mattino, accenni di sole, poi pioggia potente al pomeriggio e di nuovo caldo, fino al tramonto.

Una tappa che ha proposte anche parecchie prove da affronatre e superare, sia come singoli che come gruppo. Siamo usciti dal deserto in senso stretto, dunque dal suolo irregolare ma con prospettive ampie e delineate: fino a ieri il GPS era davvero utile, perchè nonostante non indicasse “una strada”, ci permetteva di sapere che seguendone le coordinate e orientandoci con i punti cardinali a esse riferite, saremmo arrivati a destinazione. Ma se tra il punto di partenza e quello di arrivo, ci sono montagne rocciose che si spingono fino a 2000 metri di quota, fiumi e torrenti da guadare e crepacci che non avremmo potuto attraversare nemmeno con un carro armato, allora la storia cambia. Parecchio.

Percorriamo, da Bogd, i primi centotrenta chilometri in un deserto che lentamente si converte in prateria: è tutto smisuratamente ampio, ma non c'è più sabbia fine. Viene sostituita da sassi e pietre, ciuffi verdi e qualche fiore del deserto. I grilli e le quaglie, non hanno più livrea marrone chiara, per lasciare posto a colori simili a quelli in cui si muovono. Un'aquila dall'apertura alare di almeno un metro e mezzo, sfrutta le termiche sopra di noi, e quando sbatte le ali sembra di vedere un deltaplano gigante che muove l'aria con la propria forza, piuttosto che il contrario.

Poi, mentre sullo sfondo, in lontananza, riusciamo a scorgere i profili frastagliati di montagne sconosciute, si rivelano le dune sabbiose. Un contrasto netto e accattivante: siamo nella prateria, nel verde, ma alla nostra sinistra sorgono colline di sabbia e le creste si muovono con l'aria.

Nicola e Valerio non si trattengono: come l'assetato corre verso la fonte e non vede altro che la propria sete colmata, i piloti aprono a manetta e inaugurano il loro personale parco divertimenti.

Su è giù, derapate e salti, equlibrismi in cresta e ancora discese e salite. Le loro moto, in termini di potenza erogata, non sono affatto seconde a quelle dotate di motore a scoppio. Tuttavia le sollecitazioni che ricevono sono importanti e una cinghia di trasmissione salta.

Poco male: facciamo un po' di fatica per tirare fuori dalla sabbia la moto di Nicola – che, troviamo doveroso scrivere, non si perde mai, ma proprio mai d'animo, riuscendo a stimolare soluzioni costruttive per ogni problema – la spingiamo fino al punto dove la terra diventa di nuovo solida.

Si aggancia a Valerio e come due buoni amici che sanno di non riuscire a godere davvero di un'esperienza senza condividerla insieme, negli agi e nelle difficoltà, rientrano al “campo base”, dove abbiamo parcheggiati i pick-up.

Mentre i piloti smontano e rimontano la corona e tutto il resto, sempre coadiuvati da Giorgio che sa riparare tutto, pensiamo che se solo mancasse una delle persone che compongono il nostro Team, saremmo rovinati. Ciascuno contribuisce e, come descritto nei giorni precedenti, si inventa ciò che non avrebbe mai immaginato di sapere fare. Oppure lo impara. Diventa così, questa, un'esperienza a  “Matriosca”. Sono scatole di apprendimento che stanno l'una dentro l'altra, fino ad arrivare al cuore, all'origine, che è il desiderio di farcela, di arrivare in Italia elettrici ed elettrizzati al punto giusto.

Prepariamo dei panini con ciò che abbiamo: pomodori, scatole di tonno, insalata, carote e cipolle: con un coltello svizzero di colore rosso, tagliamo tutto per bene, mischiamo in una bacinella, aggiungiamo un po' di soja, e il nostro rancio e pronto.

Carichi di energie e di batterie per le moto, attorno alla una di pomeriggio, dopo unn paio di ore di sosta tra dune e riparazioni, siamo pronti per ripartire.

Cinquanta Km dopo, rimaniamo a contemplare il lago Orog nuur, per dieci minuti, sotto sequestro della tranquillità apparente. Sappiamo che mancano ancora cento Km: non sono moltissimi, perciò nonostante la stanchezza si faccia già sentire pesantemente, pregustiamo il riposo “comodo”, in una cittadina che sappiamo essere abbastanza grande da avere un albergo con stanze dotate di bagno e doccia, che è tutto ciò di cui abbiamo bisogno dopo giorni di deserto senza compromessi.

Ma ecco che le piste iniziano a divenatre pendenti, salgono e scendono all'improvviso e nel cuneo che si forma tra le inclinazioni, corre acqua oppure la terra è cedevole. C'è da allacciare le cinture, che in verità sono sempre allacciate, ma in questo caso vanno strette per bene, diventando la metafora di ciò che stiamo vivendo.

Aumenta la pioggia, siamo in tensione: senza rendercene conto arriviamo in montagna, tra strade diroccate e decine di piste che si snodano tra le colline e gli altipiani. Solo che ognuna di queste colline preclude la vista alla sucessiva, non si capisce bene quale sia la direzione da prendere perchè il punto GPS di nord-ovest, ma se dirigi da quella parte c'è una scarpata che non si può affronatre.

Guidiamo come mai c'è capitato nella vita.

Non ci siamo persi perchè sappiamo dove andare, ma a questo punto è come se lo fossimo, perchè non sappiamo come andarci.

Ed ecco che l'unico aiuto possibile arriva dallo strumento più tecnologico a avanzato che sia mai stato concepito: l'Essere Umano. È una donna, una signora sulla quarantina che vive in una delle rare Ger che sorgono a queste altezze, alla quale ci rivolgiamo per avere indicazioni. Molla le capre e i polli che cura, insieme a quattro bambine, salta a bordo della sua motoretta, carica la più piccola delle figlie con sé, e come in un sogno, tra colline e suolo roccioso, ci tira fuori dalla valle in cui eravamo rimasti incastrati. E si apre il sogno più intimo della Mongolia, la sua rappresentazione migliore fino a oggi: una strada lunghissima con saliscendi dolci, che arriverà fino a Bayanhongor. Viaggiamo al tramonto con la certezza che arriveremo a destinazione, alziamo il volume della radio, e a destra e sinistra, altipiani e montagne di una bellezza mozzafiato incorniciano il nostro passaggio e stavolta ognuno di noi avrebbe perso la scommessa, se ci avessero detto che a pochi km dai passi sui quali avevamo smarrita la via, ci sarebbero stati paesaggi di questo tipo.

Forse in dodici giorni di viaggio, questo è stato il più lungo, duro, stancante, avvincente. E' come se in un'unica giornata ne avessimo vissute cinque. Abbiamo bisogno, quindi, di un riposo che pari al quintuplo di quello guadagnato fino a oggi. Domattina dormiremo senza una sveglia impostata prima delle nove e poi, dopo una mattinata dedicata alla sistemazione delle moto, dei veicoli e di tutto ciò che ci portiamo, dentro e fuori, iniziermo a puntare Altay.

Testo e Foto di Flavio Allegretti

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