Meneghina Express’ numbers:

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350 hours riding

297 batteries recharged

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Giorno 6 e 7 - Cina flag - 15 e 16 Giugno

Da Sonid Yougi a Dornyn Gobi / Da Zaminhud a Sanishand: Conosci il deserto, conosci te stesso

Le operazioni iniziano a essere più fluide. Dopo cinque giorni, alcuni processi cominciano ad assumere la forma dell'automazione. Partiamo con le moto – che possono percorrere distanze variabili tra cinquanta e cento chilometri, in base al tipo di strada e all'utilizzo di una o due batterie alla volta – e quando c'è da effetture il cambio, siamo veloci e precisi.

On Board Camera di Nicola mentre attraversa il deserto del Gobi con la sua moto elettrica.

Si accostano i pick-up, appena riceviamo dai piloti un segnale e troviamo un'area sicura per farlo; le moto sostano in mezzo, scendiamo dalle quattro ruote e apriamo gli sportelli laterali del veicolo dedicato all'energia. I piloti predispongono le batterie, noi le sostituiamo, attraverso un taccuino registriamo la posizione di quelle scariche e di quelle pronte per la sostituzione che seguirà. Non è complicato, ma serve essere coordinati per farlo in fretta, non perdere tempo, proseguire la marcia. Il sesto giorno di viaggio prevede il superamento del confine tra Cina e Mongolia e, avvenimento non meno importante, la separazione tra la nostra strada e quella di Carlo. È stato con noi dalla partenza – noi che abbiamo viaggiato sullo stesso veicolo e che, da domani, ne gestiremo il volante, abbiamo imparato tanto da lui, che ha sempre guidato go-kart, macchine da corsa di ogni tipo – e soprattutto abbiamo incrociato la nostra vita con quella di un ragazzo unico, prezioso, disponibile e brillante. Arrivederci, Carlo. Sappiamo che con grande probabilità ci raggiungerai in Bulgaria, o farai di tutto per dividere con noi qualche migliaia di chilometri in Europa. Non lo sai, invece, adesso, mentre ti immaginiamo a casa a godere un po' di meritato riposo, ma pochi minuti dopo essere salito sul taxi ed esserci salutati, ci siamo avviati verso la dogana e da lì è iniziato il delirio.

Sei ore di attesa, tra sguardi militari impenetrabili, pratiche burocratiche inerenti ai mezzi particolari sui quali viaggiamo, e attimi di speranza e loquacità alternati a sospetti e piccoli moti di panico.

Come quando sistemiamo sul sedile posteriore di uno dei pick-up un po' di attrezzatrura elettronica e, di colpo, si fanno vicini due tizi in borghese e ci impongono di mostrare loro una macchina fotografica. La prima cosa che chiedono, è: “ Iu-es-ei?”.

Vogliono sapere se siamo americani, se per caso ci siamo permessi di fotografare il confine, le divise, le centinaia di jeep di una nota marca russa, che rientrano in Mongolia come facessero una staffetta quotidiana volta al commercio di acqua e di altri beni difficilmente reperibili nel loro territorio.

Ce la caviamo anche qui, sfoderiamo un sorriso di circostanza ma tendiamo a naturalizzarlo attraverso un interesse comune: la bicicletta. Uno dei poliziotti ne cavalca un modello piuttosto moderno per il luogo, e arriva facile il paragone con le nostre moto che biciclette non sono ma, fino a prova contraria, grazie al motore elettrico, qui sono classificate come tali.

Fuori dal confine cinese, in uno tsunami di corse, timbri, carte da mostrare e da vidimare, c'è da passare la barriera mongola.

Anche qui ci sono attimi di sana confusione: un militare intima di procedere, Nicola nel frattempo è in un ufficio distante che firma carte, trattenuto dalla burocrazia. Ci perdiamo, ci ritroviamo, ci innervosiamo, ci tranquillizziamo. E siamo in Mongolia. No. Perchè cento metri dopo l'ingresso, un'auto bianca ci sorpassa e ci blocca. Agenti, in borghese. Gli stessi che dieci minuti prima ci avevamo timbrati i passaporti col sorriso stampato in faccia. Tutta una farsa. Non li avevamo convinti prima, ma riusciamo a farlo ora: aprono i cassoni, guardano le moto, guardano noi, fanno finta di andarsene. Poi se ne vanno per davvero. E siamo tranquilli.

La tranquillità è una sensazione - una percezione, uno stato d'animo - che viene letteralmente frantumata da un'emozione nuova. Il deserto. La sua epifania è ancora acerba, eppure così netta, spiazzante. Una vertigine ci assale, inizia a battere il cuore, forte, come la prima volta che ti innamori e solo lì capisci cosa vuol dire. Il deserto vero – nonostante chi di deserto “se ne intende” e conosce il Gobi, sa che la pienezza della sua forma è più a ovest, e noi ci arriveremo – ma vero come messaggio che veicola, come botta che ti arriva e ti stende, come novità paragonabile a una nascita.

Interiore, perchè sei spiazzato e fuori controllo. Esteriore, perchè tecnicamente non sei pronto.

Non sei pronto a passare da una strada normale - per quanto frastagliata e pur sempre in Mongolia, non sulla tangenziale Est – alla sabbia, allo sterrato con cunette anche di mezzo metro che si alternano senza avvisi. È tutto vero, è tutto incredibilmente reale e senza compromessi.

Siamo nel primissimo assaggio del Gobi e il sole tramonta. Non esistono più navigatori satellitari, nemmeno il segnale telefonico. Abbiamo il GPS, dobbiamo evincere noi le coordinate e impostarlo, ma questo è un tema che risulterà fondamentale affrontare da domani.

Ora siamo storditi, stanchissmi, e dobbiamo raggiungere l'accampamento di tende mongole più vicino, per trascorrere la notte.

Alcuni di quelli che, tra noi, non hanno mai visto il deserto, pagano l'assaggio come si potrebbe pagare il morso di un serpente velenoso. Perdono un po' la testa: è soltanto paura di ciò che non si conosce, paura di non essere in grado di gestire ciò che arriverà. Ogni problema potenziale diventa paranoia, ogni parola espressa male si commuta in presupposto per discussione. Niente, non bisogna dare retta a niente di tutto questo. Riposare, dormire, rinfrancarsi. L'indomani si vedrà.

Ma, in questa cronaca veloce, per la prima volta chi si occupa di scrivere il diario - e facendolo di solito utilizzando il plurale, nella speranza di fare sentire a tutti le voci di tutti - desidera inserire un inciso personale.

(Prima di addormantarmi, esausto, impossibilitato a scrivere, ho ascoltato il cuore. Batteva a mille. “Conosci il deserto, conosci te stesso”, ho pensato, o l'emozione ha pensato e tradotto in parole per me. I bambini mongoli che curiosi spiano l'arrivo di noi sconosciuti dall'ingresso di queste tende a pianta circolare, viste nei disegni di un libro alle elementari. Il latte offerto, accompagnato da una strana pasta e pezzi di carne di capra. Il vento. Il vento che soffia forte, parla, alza la sabbia. Tutto buio, profumi nuovi e la sensazione di essere davvero lontano da tutto. La sensazione che sia vero. Che questa volta non ci siano finiti berberi con jeep lucide a riportarti in albergo, o camminatori del Sinai che ti mostrano le dune semidure appena fuori da una località turistica. Non si può spiegare, non più di così, non dal luogo dal quale scrivo adesso, sapendo che tra sette ore dovrò guidare verso il West Gobi senza grandi garanzie, se non il contare sui miei compagni e sulla mia buona volontà. Eppure il deserto, questo deserto, mi è già entrato dentro. Mi carica e scarica, attrae e spaventa. Uno specchio di profondità, con lente nuova. Guardo più in là e mi sembra di scorgere qualcosa. Dentro).

Oggi, 16 giugno, il deserto raccontato, lo abbiamo assaggiato per davvero. Da Zaminhud a Sanishand abbiamo percorsi circa 220 Km. In sette ore. Perchè nel deserto - anche se questo non è ancora quello “pieno” totalmente sabbioso – non si può correre. Per più della metà del tragitto, non abbiamo potuto perdere la concentrazione un minuto. Buche, sassi, massi, carcasse di animali. Nicola e Valerio ci hanno aperta la strada con le moto, insegnandoci alcuni principi legati alla gestione dei veicoli in queste situazioni. Non si può sbagliare: spacchi una sospensione, e i giochi sono fatti. E finiti.

I piloti si sono diveriti tra sgommate, salti e accelerate, ma soprattutto sono stati favolosamente capaci: ci dicono che non abbiamo ancora visto niente, e vogliamo credere loro. Un passo alla volta, anche se, nel nostro piccolo, pensiamo che una situazione del genere non sarebbe gestibile proprio da “chiunque”.

In questo momento la saggezza di Nicola, che sta meritandosi un riposo indispensabile, vorrebbe che fossimo già sotto le coperte. Il rispetto per la sua esperienza e la gratitudine che abbiamo nei suoi confronti e in quelli di Valerio per averci scelti per questa missione, ci impone di dare ascolto ai consigli saggi. Ora vi inoltriamo queste parole, e poi dormiamo. Non le abbiamo rilette, ma non importa. Sappiate che stiamo vivendo un'avventura vera, con mezzi normali, da persone normali con sogni speciali. Prevediamo due giorni di buio. Poi sarà luce di nuovo, che ha scaldata la sabbia e illuminati occhi e pensieri.

Testo e Foto di Flavio Allegretti

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